giovedì 21 giugno 2012

Michelangelo - Venere e Amore

Come sempre ci si va cauti ma l'ipotesi della (ri)scoperta di un Michelangelo è sempre affascinante, ancor più perchè la posa di Venere nella formella analizzata ricorda tanto l'Adamo della Sistina.

Una formella di marmo presente dal XVIII secolo nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi a Firenze sarebbe stata scolpita da Michelangelo Buonarroti, lo geniale scultore fiorentino del Rinascimento. A identificare la scultura, intitolata 'Venere e Amore' e rappresentante una donna con in braccio un bambino, sono stati i due storici dell'arte Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi.

Ulteriori studi e indagini saranno intrapresi; tuttavia, lo stile, i riferimenti iconografici e culturali, le misure della forma (originariamente l'opera doveva avere una larghezza di 67-68 cm, con un rapporto tra dimensioni di 2:3, tipico di Michelangelo) e, naturalmente, l'elevata qualità dell'opera fanno pensare che questa formella sia proprio una formella di Michelangelo.


Michelangelo (att.) Venere e Amore 

e naturalmente c'è il cartone michelangiolesco con questo soggetto dal quale Pontormo ha tratto la sua opera.


Un articolo più completo da Fiorentini nel Mondo

Attribuita al Buonarroti una formella di marmo nel Cortile di Michelozzo: raffigura l’abbraccio di una donna nuda con un bambino. “Talvolta, capolavori sconosciuti si nascondono, ovvero si mimetizzano, dinanzi a innumerevoli sguardi”, così un rilievo di marmo inserito nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi nei primi anni del XVIII secolo è oggi presentato come opera attribuibile a Michelangelo Buonarroti. La composizione, l’iconografia, i riferimenti letterari, l’altissima qualità, la tecnica e lo stile della scultura, i confronti e le coincidenze con le opere di Michelangelo, rendono l’attribuzione di questa formella al grande Maestro fiorentino molto più che un’ipotesi.
Quasi al centro di uno dei grandi “cartelloni” collocato sulla parete meridionale del cortile, esattamente quella verso l’angolo occidentale, il piccolo rilievo marmoreo, raffigurante una donna sdraiata teneramente abbracciata a un bambino, rivela la sua natura rinascimentale, benché sia stata inserita fra reperti in marmo greci e romani. La ricostruzione storica della collocazione di quest’opera risale a dopo che i Riccardi avevano acquistato, nel 1659, il Palazzo Medici di Cosimo il Vecchio in via Larga, capolavoro del XV secolo: nel primo Cinquecento lo studiò Leonardo, vi lavorò Michelangelo. Nel mirabile Antiquarium creato da Francesco Riccardi, alcuni pezzi furono oggetto di critiche da parte di studiosi che mettevano in dubbio l’antichità di alcuni frammenti. Il rilievo rinascimentale ora individuato potrebbe persino essere stato eseguito come un “falso-antico”, pratica nella quale si distinse lo stesso Buonarroti.

L’opera, rotta in più frammenti in epoca imprecisata, fu ricomposta e incastonata nell’attuale cornice prima del 1715, sicuramente prima del 1719, anno dell'ultimo pagamento dei lavori eseguiti da Foggini e dai suoi allievi per i Riccardi. Lo studio sulla “lastrina” e l’ipotesi di attribuzione del rilievo a Buonarroti è stata avanzata per la prima volta da Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi nel recentissimo volume “Michelangelo Assoluto”, edito da Scripta Maneant (Reggio Emilia, 2012), a cura dello stesso Vezzosi, con introduzioni di Carlo Pedretti e Claudio Strinati, contributi (oltre che di Morolli) di Lucilla Bardeschi Ciulich, Rab Hatfield, Marina Mattei, e arricchito dalle interpretazioni fotografiche di Aurelio Amendola.

“La Provincia di Firenze accoglie con molto entusiasmo questa ricerca, portata avanti con serietà e competenza – ha commentato il Presidente dell’amministrazione provinciale Andrea Barducci - . L’attribuzione del rilievo a Michelangelo è anche un’occasione per riscoprire le bellezze, spesso poco note, di Palazzo Medici Riccardi. Proprio per questo motivo, è stata messa in programma un’operazione di accurata ripulitura delle sculture conservate nel Cortile di Michelozzo”.

La lastrina di marmo misura attualmente cm 43,5x58, mentre - come ricostruisce Gabriele Morolli - le misure presumibilmente originarie dell’opera, di cui oggi non si vede il termine a destra, potevano raggiungere una larghezza di 67-68 cm, mentre l’altezza doveva essere di poco superiore a quella attuale. Una misura ‘non fiorentina’ – chiarisce Morolli – usata da Michelangelo in quanto diviso nella sua biografia artistica tra Firenze e Roma, e tendente alle proporzioni del rapporto 2:3 di quinta musicale. Il rilievo rinascimentale è stato denominato “Venere e Amore” nell’ambito di una ricerca che ha permesso di individuare chiari parallelismi e convergenze con i caratteri di molte opere di Michelangelo, a partire dal contrasto tra il levigato, il ruvido e il ‘non finito’.

La formella Riccardi potrebbe anche essere una traduzione scultorea della Venere e Cupido “disegnata da Michelangelo e colorata da Pontormo”, ideata dal Buonarroti tra il 1532 e il 1533 per la camera di Bartolomeo Bettini e rielaborata negli anni in almeno sedici dipinti identificati e in altri sedici documentati, oltre a disegni e cartoni, da artisti come Agnolo Tori detto il Bronzino e Giorgio Vasari (cfr. la mostra “Venere e Amore” del 2002 nella Galleria dell’Accademia). Ma per Morolli e Vezzosi è più probabile che sia invece un antecedente databile verso il 1504 e in relazione con il Tondo Pitti (Firenze, Bargello) e il Tondo Taddei (Londra, Royal Academy). Senza escludere tuttavia l’ipotesi suggestiva del periodo mediceo nel Giardino di San Marco, o “degli esperimenti antiquari” per Pierfrancesco de’ Medici (nell’ultimo decennio del ‘400). Interessante per l’analisi di questa Venere Medici-Riccardi, il confronto con disegni come la figura distesa nella Studio per un Baccanale di Bayonne (attribuito a Michelangelo da Tolnay e Buck) e il frammento che si conserva a Colonia nel Wallraf-Richartz-Museum. Entrambi potrebbero essere in relazione con una precedente idea compositiva di Michelangelo, o con varianti di cui si ha un’eco nel disegno dello stesso Pontormo che trasforma il bacio incestuoso nell’abbraccio di una Madonna che allatta.

Questa Venere Medici-Riccardi presenta sì la potenza dell’Amore, ma un nudo femminile meno eroico e più aggraziato, meno virile di quello di Michelangelo-Pontormo che l’Aretino lodava per aver fatto Michelangelo “nel corpo di femmina i muscoli di maschio”. La posizione di questa Venere presenta affinità compositive persino con l’Adamo nella volta della Cappella Sistina, con l’Aurora e la Notte nelle Cappelle Medicee, con il dipinto perduto (e il cartone) di Leda e il cigno, con Venere e Amore di Pontormo-Michelangelo (Firenze, Galleria dell’Accademia), e continuano con il Sogno della vita umana (Londra, Courtauld Institute) e con il disegno di Sansone e Dalila (Oxford, Ashmolean Museum), fino al San Paolo dell’affresco vaticano.

Risalta nel rilievo un senso astraente e dinamico nei volumi, sensibile in luce e in ombra, nell’invenzione e reinvenzione della posizione resa celebre verso il 1517-1520 dall’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello; ma certo Michelangelo – afferma Vezzosi – non aveva bisogno di Raimondi per una simile soluzione iconografica di così “elegante vivacità d’artifizio”. Un nuovo riconoscimento di autografia riferita a Michelangelo è di estrema complessità. Ulteriori indagini e studi proseguiranno, insieme a nuovi confronti critici, per approfondire l’attribuzione del rilievo Medici-Riccardi al Buonarroti, ma già quanto evidenziato ha di per sé grande fascino e credibilità. “Anche se non fosse opera di Michelangelo ma di un suo seguace – commentano Morolli e Vezzosi – crediamo che l’individuazione di questo rilievo Medici-Riccardi raffigurante Venere e Amore rappresenti la sorprendente riscoperta di un raffinato, piccolo capolavoro”.

La lastrina in marmo - alta 43,5 cm e larga 58 circa - risulta ricomposta con 9 frammenti di differenti dimensioni: ha un bordo rilevato (un liscio nastrino a listello) sia sul lato verticale sinistro che su quello orizzontale superiore, che attualmente in basso e a destra. I personaggi scolpiti sono due. Una donna nuda è adagiata in una morbida posa, posta com’è sul fianco destro, sostenuta dal braccio elasticamente flesso e “puntellata” sul polso ripiegato e sulla mano rivolta verso l’esterno; mentre il braccio sinistro si protende nella porzione superiore del marmo. Il volto si presenta in un tagliente profilo, mentre le due gambe sono scolpite in ardito contrapposto: la destra completamente allungata e la sinistra fortemente ripiegata sin sotto la coscia.

Il fanciullo si avvita teneramente in grembo alla ‘madre’, ponendosi disinvoltamente a cavalcioni della coscia sinistra, stringendola con le gambette piegate e salendo con il piccolo busto lungo il petto della figura femminile, della quale il braccino sinistro cinge dolcemente il capo, in modo che la riccioluta testa del bambino possa giungere all'altezza del volto materno quasi a unire le labbra in un bacio. “Una composizione sapiente - nota Gabriele Morolli - dove ogni gesto è inserito in un contesto generale di accorti bilanciamenti e contrappunti. La superficie marmorea è lavorata in modo variegato: dalla finitura quasi perfetta di alcune parti alla sbozzatura meno definita di altre, fino a porzioni arditamente ‘non finite’, come i volti dei personaggi. Come in una seducente, generale impressione di work in progress, di ‘prova d’artista’”.

martedì 12 giugno 2012

La resurrezione di Lazzaro del Caravaggio restaurata






La Resurrezione
splendori e segreti

di FABIO ISMAN

DOPO 60 anni esatti, Caravaggio è tornato dal medico e si è fatto curare: la Resurrezione di Lazzaro, tarda meraviglia eseguita nel 1609 a Messina dove è, sarà mostrata a Palazzo Braschi, da venerdì al 15 luglio, dopo sette mesi di lavori all’Istituto centrale del Restauro che ha restituito colori e leggibilità all’opera, assolutamente ossidata e spenta, regalando anche tante sorprese. Il Messaggero ha ammirato in anteprima il risultato, e discusso con i medici che hanno guarito l’immensa tela, tre metri e 80 per due e 75, pagata, per Francesco Susinno, lo sproposito di mille scudi dal genovese Giovanni Battista de’ Lazzari (e per Lazzari, Caravaggio dipinge Lazzaro), amico d’un committente ligure dell’artista, Ottavio Costa. A Messina, Lazzari aveva una banca, il porto era allora tra i più rilevanti nell’intero Mediterraneo e non solo; la tela era per una sua cappella.
«Abbiamo scoperto che Merisi usa solo prodotti locali: la calce della preparazione contiene perfino resti fossili di conchiglie», racconta Anna Maria Marcone, che all’Istituto dirige i laboratori ed ha capeggiato l’intervento; «nella preparazione scura, ci sono le sue tipiche incisioni: per delimitare le figure, o indicarne l’inclinazione. E ancora, abbiamo scoperto che il quadro è costituito da cinque teli verticali e uno orizzontale; la cucitura orizzontale è più grossolana; la banda in basso, senza figure, è certamente successiva: l’opera era già stata inchiodata, ed abbiamo trovato i fori, prima che venisse aggiunta. Probabilmente, Caravaggio ha dipinto senza conoscere le misure dell’altare al quale la pala era destinata».
Il Genio aveva una gran fretta. «Ci sono mani dipinte per metà: il resto è preparazione; anche dei volti. Risaltano ancor meglio le lame di luce da cui cava le figure, come diceva Cesare Brandi, che nel 1951 restaurò l’opera per la prima volta. Sull’osso al bordo inferiore, l’artista crea la luce dipingendovi sopra una semplice serpentina». Occupa solo metà dell’immensa tela: la parte superiore è priva di figure. Accenna appena le pennellate sul corpo di Lazzaro: «Sembra arte moderna; ricorda l’ultimo Tiziano, il suo non finito», spiega Daila Radeglia, funzionaria che ha diretto l’operazione. «La luminosità del dipinto era perduta al 70 per cento», dice Fabio Aramini, del laboratorio di Fisica dell’Istituto, compiendo le misurazioni: finalmente, ora le figure risaltano. Nel 1951, i mezzi erano quelli che erano: si usò una resina naturale ormai caduta in disuso, che, nel tempo, ha creato problemi; gialla, poco trasparente, aveva causato quasi un cretto, tante crepe. «Il quadro è fragile; abbiamo usato un gel speciale, per non far penetrare negli strati di pittura i solventi», spiega Anna Maria Marcone. E il risultato è del tutto imprevisto, superiore a qualsiasi attesa; un capolavoro oggi ritrovato, che da sempre aveva dato grandi problemi. Andrea Suppa, che lo restaurò quando il quadro aveva appena 60 anni, morì d’infarto credendolo perduto nel tentativo di dargli luce. Gisella Capponi, la direttrice dell’Istituto, ricorda quello che, oggi, pare un paradosso: la Resurrezione era nella chiesa dei Crociferi (e si ignora come fosse la sua cappella), demanializzata e distrutta nel 1879 per creare la Camera di Commercio. E per fortuna non era più lì, ma in deposito, quando arriva nel 1908 il terremoto: distrutto l’edificio, ma salva la tela.
A guardarla, ci si ritrovano numerosi soggetti tipici di Caravaggio: una mano è analoga a quella della Cattura di Cristo di Dublino; la Maddalena, all’Annunciazione di Nancy; e su tutto, vicino al Cristo, l’autoritratto di lui: le mani giunte, quasi a supplicare il perdono. Il documento siciliano di questo quadro lo definisce ancora «cavaliere gerosolimitano»: non lo era più; a Malta lo avevano buttato fuori (e in carcere); era fuggito dall’isola come già da Roma nel 1606, per l’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Gli restavano un anno da vivere, la fuga a Napoli, quella vana verso la capitale dei papi e la grazia. Chissà perfino se è passato da Palermo: la Natività, rubata dalla mafia nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo, magari l’ha spedita.
Resta da dire chi ha compiuto questo miracolo, e chi lo ha reso possibile. Con Anna Maria Marcone, altri due docenti dell’Istituto, Carla Zaccheo e Emanuela Ozino Caligaris, «aiutati da cinque bravissimi allievi», dice la Marcone, «pagati duemila euro per sei mesi di lavoro; devo citarli: Mauro Stallone, Giorgia Pinto, Federica Cerasi, Alessandra Ferlito, Elena Santoro». Questi e altri fondi li ha forniti Metamorfosi, un’associazione culturale romana che realizza esposizioni (soprattutto con Casa Buonarroti a Firenze e la Biblioteca Ambrosiana a Milano), di cui è presidente Pietro Folena, un passato politico nei Ds. Spiega: «Più che essere mecenati, proviamo a risolvere problemi. In mostra, grazie alla Rai, ci sarà un video del 1974 di Giorgio Bassani, con la storia del restauro del 1951 e dell’Istituto, che poi accompagneranno la tela a Messina». Il resto è organizzato da Zetema, che gestisce il Palazzo e i musei romani.
Un ultimo codicillo: adesso che la Resurrezione è stata restaurata come si deve, non la si faccia viaggiare, per favore, di continuo. Ai quadri, fa male. Sei Caravaggio, dopo essere andati a Mosca, sono ora a Belo Horizonte, in Brasile, alla Casa Fiat della Cultura. Saranno ambasciatori d’italianità; ma per loro, ogni viaggio è uno stress grave.

dal Messaggero

La "Resurrezione", dal 15 giugno al 15 luglio, sarà mostrata a Palazzo Braschi, nella capitale, e farà ritorno al Museo Regionale di Messina non prima del 22 luglio.

 

martedì 5 giugno 2012

Arte e Cibo

Natura morta - Georg Flegel (1632)
Dal sito Taccuini Storici - rivista multimediale di alimentazioni e tradizioni un'interessante sezione dal titolo Arte e Cibo raccoglie una serie di articoli esplicativi sul rapporto tra gli alimenti, la loro presentazione e le opere d'arte con riferimenti all'iconografia. Si scopre per esempio che in diversi ricettari è riportato il pasticcio della convivialità medioevale che ebbe maggior successo: la “testa di monaco”. Non si trattava di una testa, ma di una costruzione bizzarra simile ad un castello, sembra ispirata agli inconfessati peccati di gola dei prelati, e composta a base di tagliatelle, lasagne, ravioli, miele, uva passa, datteri, nocciole, cipolla soffritta. O che verso la metà del XVI sec. a Firenze, come narra il Vasari , fu fondata la "Compagnia del Paiuolo", cui aderirono dodici artisti (fra i quali Andrea del Sarto, il Varchi, il Firenzuola). Lo scopo era quello di stupire i commensali con piatti particolari e rime poetiche a frittate, salsicce, poponi e zuppe. Che la frutta secca rimanda al Matrimonio, Provvidenza, incarnazione di cristo, Trinità o che nell’esegesi biblica l’aceto simboleggia la mente corrotta, per essere il frutto della corruzione del vino, l’inganno, la frode, ciò che il diavolo elargì al popolo dei giudei. Esso rappresenta inoltre l’empità.

Natura morta con olio e aceto - J.B.S. Chardin (1769)


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