mercoledì 29 febbraio 2012

Giovanni Reale - La stanza della Segnatura

Il filosofo Giovanni Reale, già autore di importanti studi sulle stanze di Raffaello, spiega in un sintetico quanto interessante articolo sul Corriere i significati della Stanza della Segnatura in Vaticano.


Le tre vie al Vero. Così Raffaello sconfigge il tempo. «Parnaso», «Scuola di Atene», «Disputa»: è il ruolo eterno di arte, filosofia e religione.

Nel 1511 Raffaello terminava i suoi grandiosi capolavori nella Stanza della Segnatura, studio del Pontefice, i quali esprimevano un vero e proprio programma ideale del pensiero della Chiesa rinascimentale. I tre grandi affreschi, che hanno assunto i titoli Il Parnaso, La Scuola di Atene e La Disputa, rappresentano, infatti, quelle che sono state considerate le tre grandi vie che l'uomo percorre nella sua ricerca del Vero e dell'Assoluto: l'arte, la filosofia e la religione. L'arte ricerca l'Assoluto mediante la poesia (espressa in varie forme), la filosofia mediante la ragione, e la religione mediante la fede. Raffaello rappresenta tali concetti in forme immaginifiche pressoché perfette e come paradigmi che si impongono nella dimensione del classico. Robert von Zimmermann nel suo trattato di estetica (1865) scriveva: «Shakespeare non è meno classico di Omero; anche Raffaello sta accanto a Fidia». E precisava: «La pura forma estetica del classico non include alcuna determinazione di tempo; il classico sta nel tempo, la classicità sta fuori dal tempo». E in effetti, quegli affreschi di Raffaello rimangono vivi oggi come cinquecento anni fa, e incantano chi li guarda, come incantavano il pontefice Giulio II che li aveva commissionati.

La Stanza della Segnatura, originariamente destinata a biblioteca privata di papa Giulio II, contiene i più famosi affreschi di Raffaello. Il tema del «Bello» è raffigurato nell’affresco del «Parnaso» (1510-11) con Apollo e le Muse e, tutt’intorno, diciotto poeti. Tra questi: Petrarca, Saffo, Omero, Dante, Virgilio, Boccaccio e Ariosto.

Il Parnaso è l'affresco meno studiato e meno gustato, anche perché è tagliato in basso al centro dalla parte alta di una porta che risulta disturbante. Alcuni rimangono perplessi per l'Apollo che sta al centro, e che si differenzia nettamente dalle raffigurazioni greche classiche. Ma esso rappresenta l'immagine tipicamente rinascimentale del dio, e rispecchia il concetto platonico dell'«ispirazione poetica», come viene presentato nel Fedro : «L'invasamento e la mania che provengono dalle Muse, impossessatesi di un'anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie...». Incantevoli sono poi le Muse, raffigurate in molti casi con gli strumenti che le caratterizzano. I quattro gruppi di poeti sono suddivisi in lirici, epici, bucolici e tragici, secondo una formula esemplare; e alcuni di essi sono raffigurati in modo assai efficace, come per esempio Saffo, Omero, Dante e i tre grandi tragici greci Eschilo, Sofocle e Euripide.

Nella Stanza della Segnatura il «Vero razionale», o la filosofia, è rappresentato dall’affresco della «Scuola di Atene» (1509-11), con la raffigurazione dei grandi filosofi (al centro Platone e Aristotele)

La Scuola di Atene è certamente l'affresco di Raffaello più noto e più studiato a livello internazionale.Friedrich Adolf Trendelenburg scriveva che in esso i personaggi non rappresentano «un passato», bensì «la permanente attualità della storia» del pensiero, e quindi una storia contratta in un eterno presente. Edgar Morin, in Pensare l'Europa , scrive che nel Medioevo la «Scuola di Atene» era morta, la sua porta fu riaperta nel Rinascimento, e la sua perennità fu consacrata proprio in questo affresco nella Stanza della Segnatura in Vaticano. E conclude: «La riattivazione dell'eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l'arte europea rimangono ancorati a questa fonte». Raffaello rappresenta il pensiero greco dalle origini alla fine in ottica platonica, con le precise indicazioni dategli da Fedro Inghirami, straordinario conoscitore e amante dell'antichità. Inizia dalla raffigurazione del messaggio degli orfici (alla sinistra per chi guarda) con un sacerdote (raffigurato con il volto dello stesso Inghirami) che sta leggendo, da un libro appoggiato sulla base di una colonna, la grande rivelazione secondo la quale l'anima dell'uomo era un demone divino, che per un peccato commesso era stato rinchiuso nel carcere di un corpo, ma che attraverso una serie di reincarnazioni ritornerà a essere un dio fra gli dèi. La base su cui è appoggiato il libro orfico costituisce un simbolo del pensiero greco, che si svilupperà proprio come una colonna spirituale appoggiata su quella base. A fianco sono rappresentati i pitagorici e i filosofi presocratici che si sono ispirati all'orfismo, e in particolare Empedocle ed Eraclito (con le fattezze di Michelangelo). Nella parte destra è raffigurato lo splendido gruppo dei geometri con Euclide (nelle sembianze di Bramante), con accanto due personaggi simboleggianti la geometria e l'astronomia. Al centro, seduto sulla scalinata, è raffigurato Diogene il Cinico. In alto a sinistra sono rappresentati tre sofisti, Prodico, Protagora e Gorgia. Uno dei socratici vorrebbe scacciarli dal consesso dei filosofi, mentre Gorgia gli sta rispondendo: eppure ci siamo anche noi! Il gruppo dei socratici è splendido. Sono ben riconoscibili, fra i vari personaggi, Alcibiade e Senofonte. Al centro spiccano le due figure più belle: Platone (con il viso di Leonardo da Vinci) e Aristotele, con accanto gruppi di loro discepoli rappresentati in maniera superba. Dopo un gruppo che rappresenta un maestro con discepoli, è raffigurato da solo Plotino, che nel Rinascimento venne rivalutato e ammirato (nel 1492 Ficino pubblicava la traduzione delle Enneadi che ebbe importanza epocale). Viene raffigurato isolato, in quanto sosteneva che il vertice della vita perfetta consisteva in una eliminazione di tutto, e in una fuga verso Dio «da solo a Solo».

Il tema del «Vero soprannaturale» è illustrato nella «Disputa del SS. Sacramento» (o la Teologia, 1509), dipinta su uno dei lati della stanza che, sino alla metà del XVI secolo, non servì da biblioteca, ma da tribunale della Santa Sede, la «Segnatura Gratiae et Iustitiae», presieduto dal pontefice

L'affresco intitolato La Disputa è ispirato soprattutto al tredicesimo libro delle Confessioni (come ha dimostrato Heinrich Pfeiffer). In effetti Agostino, in quanto platonico, nel Rinascimento era stato rivalutato rispetto a Tommaso. Raffaello lo rappresenta a destra in modo imponente, mentre sta dettando a uno scrivano, mentre San Tommaso è raffigurato alle sue spalle a mezzo busto. «Disputa», sulla base del testo agostiniano, non significa una discussione, ma una «rivelazione» che viene data all'uomo dall'alto, e non (come molti hanno pensato) sul sacramento dell'Eucaristia, che nel grande affresco rappresenta solo un piccolo particolare, ma sulla realtà in generale, ossia Dio, la Trinità, le vite angeliche, gli evangelisti, i santi e gli uomini che cercano e discutono di Dio, rappresentati su tre livelli: quello sopraceleste, quello celeste e quello terrestre. La Trinità è poi rappresentata come un cuneo verticale, con al vertice Dio Padre, sotto di lui Cristo, cui segue la colomba simbolo dello Spirito Santo, con al di sotto di tutti l'ostia consacrata, simbolo di Cristo incarnato (e quindi della Trinità). La composizione di questo affresco è stata probabilmente la più impegnativa per Raffaello, come dimostrano le numerose prove e i bozzetti che ci ha lasciato. Alcuni lo considerano come il vertice artistico di Raffaello. Johann Friedrich Overbeck scriveva: «Giammai forse nella pittura è stato creato alcunché di più sublime di questa gloria della Disputa. Si vede il cielo aperto, e si resta rapiti come Stefano». E qualcuno lo ritiene superiore alla stessa Scuola di Atene.

Questi tre capolavori danno veramente il meglio di Raffaello, e fanno capire quanto sia vero ciò che Friedrich Nietzsche diceva di lui, considerandolo un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale senza pari e irripetibile, quando scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più».

lunedì 27 febbraio 2012

I treni nell'arte

Da quando sono apparsi sulla scena i treni sono diventati simboli del progresso e di una tecnologia proiettata verso il futuro; strumenti meccanici ammirati e osannati per la loro forza e un'intrinseca bellezza delle linee e della struttura. Il viaggio in treno è sempre un viaggio romantico, quasi avventuroso, e i paesaggi attraversati, quasi inagibili ad altri mezzi, colpiscono per la loro maestosità. Poi ci sono le stazioni, punti di scambio e di incontro, una volta catturate del fumo delle locomotive, con l'aria bassa e indistinta. Da questo link una raccolta di treni nell'arte, a partire dalla celebre locomotiva di Turner fino ad arrivare ai dinamismi di Depero e Boccioni. Tra tutte le immagini sottolineo, per l'originalità, la raccolta del grande paesaggista Carlo Bossoli; tratto dai suoi disegni venne pubblicato a Londra, nel 1853, un magnifico album, contenente 16 litografie dal titolo Views of the Railways between Turin and Genova. Riprendendo la prassi dei libri di vedute, ma analizzando un argomento poco analizzato, l'artista presenta paesaggi dove la strada ferrata si inserisce nel paesaggio fino a farne parte con spiccato senso del pittoresco.


Alle immagini aggiungo questa bellissima opera di Gaetano Previati Railroad on the Pacific del 1916


giovedì 23 febbraio 2012

L'elefante Annone e il "pulcino" della Minerva

Dopo un restauro durato 205 giorni, torna finalmente al suo antico splendore il celebre Elefantino di piazza della Minerva a Roma, una delle sculture più popolari della capitale. L’elefantino e l’obelisco di granito rosa proveniente dal vicino tempio di Iside, furono eretti nella piazza nel 1667 su disegno di Gian Lorenzo Bernini e su commissione di papa Alessandro VII. Bernini eseguì con la sua bottega, ben 10 diversi progetti per il monumento, tre dei quali, da lui firmati, sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana.



Hypnerotomachia
Il modello al quale si ispirò il Bernini  fu verosimilmente attinto da una stampa dall’Hypnerotomachia del Polifilo con l'elefante con l’obelisco sormontato dalla palla, anche se vi sono altre suggestioni di carattere storico legate ad un particolare animale che si aggirava nei Giardini Vaticani. E' la storia del mitico elefante Annone raccontata molto bene in questo articolo di Picchio "La trionfale ambasciata dell’elefante Annone”.

La vicenda, assolutamente reale, si svolge nel 1514. Qualche tempo prima il re del Portogallo, Manuel I, aveva ricevuto in dono dal Pakistan un rinoceronte ed un piccolo elefante bianco. Il Re trovandosi nella assoluta necessità di un appoggio economico da parte di Papa Leone X , pensò di ingraziarsi il Pontefice e tutta la corte romana, inviando una ambasceria a Roma che avrebbe consegnato, oltre ai tradizionali doni, anche una cinquantina di animali esotici, con in testa il rinoceronte e l’elefante. Si tratta di rievocare, dunque, la più strana delle missioni diplomatiche, guidata da un … elefante! La bizzarra ambasceria era una fantasmagoria di colori, di musiche, di splendori d’alabarde e d’armature, di vesti di seta e di piume, e poi gli animali, tra cui una pantera nera ed un cavallo persiano, pappagalli ed uccelli mai visti prima, il rinoceronte e, naturalmente, “l’illustre pachiderma ammaestrato che incedeva sicuro, mirabilmente istruito e conscio della propria autorità.” Questo elefante fu battezzato Annone, eppure, essendo di origine indiana, gli sarebbe spettato un nome orientale; ma per gli europei dell’epoca gli elefanti erano indissolubilmente legati alla lontana spedizione di Annibale, e così gli imposero un nome cartaginese! Annone aveva quattro anni, era bianco e di dimensioni modeste, al punto che quando raggiunse la sua massima altezza non superò di molto quella di un uomo; in compenso era assai grasso. Allo scudiero reale Nicolò de Farìa fu assegnato il delicatissimo compito di “istruire” Annone affinché facesse una bellissima figura dinanzi al Papa. Il pachiderma, dopo alcuni mesi imparò ad obbedire ai comandi del suo istruttore, dapprima alla voce, infine addirittura comprendendo al volo i cenni quasi impercettibili di Nicolò.

L’elefante Annone in un disegno riprodotto nel volume “Antigualias Romanas” di Francisco de Holandia

Venne il giorno della partenza. La spedizione attraversò le terre del regno per otto giorni, suscitando curiosità e meraviglia tra la popolazione. Così scriveva Nicolò al Re in una delle periodiche missive che gli era stato ingiunto di inviare regolarmente a corte: “Nei tre giorni in cui restammo ad Alicante avemmo sempre intorno a noi tanta gente che era una maraviglia vedere, e circondati da persone e da navi ci trovammo in tanta confusione che più non si sapeva che fare. Partimmo finalmente ed arrivammo ad Ivìza, dove ci fermammo alcuni giorni, circondati sempre dalla ressa e poi, giunti che fummo a Majorca, nei dieci o dodici giorni di sosta che vi facemmo, tanta fu la folla che ci assediò che mai non avevamo intorno meno di cento battelli dove il ponte ed il cassero erano stati dati in affitto e da quelli vennero a vederci i nobili e i maggiorenti di Majorca con le loro mogli, tanto che in città non restò più nessuno”.

La curiosità per il mitico animale che da oltre mille anni non metteva piede in Europa era stata prevista, ma nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che avvenne in Italia quando, dopo una parte di viaggio in mare ed uno sbarco reso difficoltoso dal mare grosso, Annone potè finalmente posare le sue pesanti zampe sul suolo italiano. Sembra anche che una delle navi, che trasportava il rinoceronte, affondò e l’animale morì, mentre l’elefante giunse sano e salvo, sbarcando ad Orbetello. Iniziò quella parte del viaggio in terra italiana, direzione Roma, che fece registrare scene di entusiasmo ed incredibili episodi di delirio collettivo. Mentre i componenti della spedizione, sempre con Annone in testa, percorrevano una strada consolare, ai bordi della stessa si accalcava una folla straripante ed agitata, smaniosa di vedere il già famoso elefante indiano! La storia registra danni ingenti a coltivazioni, vigne, frutteti e persino devastazioni di ville e case, dove scale e balconi furono prese d’assalto per raggiungere ottimi punti di osservazione.

L’ornamento di Annone era splendente e sfarzoso: “una gualdrappa di seta azzurra, punteggiata di smeraldi e rubini gli copriva la groppa, sulla quale era collocato un cofano di sandalo dorato, con intarsi di madreperla, tempestato di gemme. Racchiudeva i doni più preziosi per il Sommo Pontefice: un piviale di broccato, il cui peso era raddoppiato da quello delle gemme, e calici, turiboli, anelli ed arredi d’oro”. Finalmente il corteo arrivò a Roma. Nella grande sala per le udienze Leone X sedeva sul trono; intorno a lui sedevano i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i Principi romani, gli ambasciatori, i dignitari di corte e gli artisti, tra i quali il Buonarroti, Raffaello Sanzio e Giulio Romano. Nicolò de Farìa avanzò nella sala, preceduto da quattro alabardieri, si fermò, fece un inchino e si fermò: “dietro di lui gli occhi dei presenti scorsero una strana mole avanzante. Sotto la grande bardatura azzurra tutti riconobbero il bianco elefante delle Indie, con quel suo curioso capo d’animale fiabesco, le grandi orecchie a ventola, la zanne appena sporgenti, i piccoli occhi vivaci e la proboscide pendente ed oscillante come un turibolo. Le zampe dell’animale si muovevano lente e sembravano piccole colonne di marmo. Annone si fermò chinando la testa in un atto che parve di reverente umiltà e del quale restarono tutti ammirati; ma nessuno s’aspettava il prodigio che subito incominciò. Stupiti, gli spettatori videro tosto le zampe anteriori della bestia flettersi adagio e l’intera sua mole, con il cofano prezioso che le torreggiava sul dorso, reclinarsi in avanti. Annone, l’elefante indiano, s’inginocchiava davanti a Sua Santità! Ed era un portentoso simbolico omaggio dell’India selvaggia e remota al Vicario di Cristo!

Nel genuflettersi, Annone levò la proboscide come un braccio teso in un gesto d’invocazione e da quella sua strana bocca dalle labbra frastagliate uscì per tre volte un barrito, non peraltro violento come quelli della giungla, ma sommesso e modulato, con un accento quasi umano. Il Papa, che si era levato in piedi, batté le mani. L’applauso, che il rispetto aveva fino a quel momento contenuto, scrosciò allora caloroso ed unanime. L’animale volse ancora la testa a destra e a sinistra, parve abbozzare due piccoli inchini, poi tuffò la proboscide in un bacile colmo d’acqua e la spruzzò tutt'attorno come gioioso saluto a Leone X e i cardinali, ma non bagnò loro, che erano in una posizione più alta rispetto a lui, bensì servi e famigli, guardie svizzere e arcieri! Insomma Annone aveva fatto uno scherzo simpatico ed innocuo. Tutta la gente era così ammirata quando Annone lasciò la sala!” L’ambasceria, grazie soprattutto al suo strano capo aveva ottenuto un completo successo. Tutte le richieste di Re Manuel furono accolte. Gli ambasciatori di Portogallo, i dignitari e i loro accompagnatori ricevettero onori e doni. Il Papa fu talmente contento del dono “vivente” da decretare libero e gratuito accesso nei teatri per tutto il periodo ai Portoghesi per tutto il tempo che fossero rimasti a Roma.

Giovanni da Udine, Villa Madama, giardino all'italiana. L'elefante Annone
Di questo privilegio ebbero ad approfittare anche numerosi romani che si fecero passar per “portoghesi”. E non solo a teatro! Celeberrima la frase:“oste io nun te pago gnente/ che so’ portoghese, nun se sente?”

Da questo evento il popolo chiamò “portoghesi” coloro che entrano “gratis” dove si dovrebbe pagare! Il pontefice ordinò la costruzione di una sontuosa stalla dentro il Vaticano, così da permettere ai romani di far visita ad Annone tutte le domeniche.Per due anni le visite a questo simpatico pachiderma si susseguirono incessantemente, poi, come in tutte le cose, l’interesse venne meno e il numero dei visitatori scemò sensibilmente. Tre anni dopo Annone cominciò ad avere una tosse fastidiosa. Forse il clima umido, o più probabilmente una crisi di nostalgia della sua terra d’origine, fecero ammalare l’elefante che in breve morì. I dottori romani diagnosticarono un’angina; ma c’è chi parla di una folle cura, costituita da un forte lassativo rinforzato con mezzo chilo di oro in polvere (!) suggerita dai veterinari. Leone X aveva pregato Raffaello Sanzio di ritrarre l’elefantino. Il grande pittore non andò di persona, ma mandò Giulio Romano il quale, a matita rossa, ne disegnò quattro magnifici schizzi, ora conservati ad Oxford. Possiamo ora tornare al piccolo elefante di fronte Santa Maria sopra Minerva. Opera di Lorenzo Bernini, venne eseguito circa un secolo e mezzo dopo gli avvenimenti sin qui narrati. Anche in questo caso c’è una storia/leggenda molto gustosa che, per ragioni di spazio, ci limitiamo a sintetizzare. Nel 1667, Papa Alessandro VII , appartenente alla famiglia Chigi, volle recuperare e posizionare un obelisco che era stato ritrovato due anni prima in un giardino vicino la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva,dell'Ordine Domenicano.

I Domenicani presentarono un progetto che prevedeva di poggiare l'obelisco su una base costituita da sei piccole montagnette (simbolo della casata dei Chigi), con un cane in ciascun angolo (simbolico: in latino 'Domini Canes' = 'I cani del Signore', guardie fedeli). Al Papa il progetto non piacque e chiese al Bernini una soluzione diversa. Il grande scultore, forse memore dell’elefantino Annone, o di un altro elefante chiamato Hanno (cioè Annone in latino!!!), il cui padrone chiedeva denaro per mostrarlo, divenuto subito molto popolare, decise di inserire l'obelisco sopra un Elefante! Il papa approvò il progetto ma i domenicani ebbero a protestare sostenendo che Bernini non aveva inserito un cubo sotto la pancia del pachiderma e temevano che, senza di esso, l'obelisco sarebbe potuto cadere sulla statua, ricordando che "nessun peso a piombo deve avere sotto di sè il vuoto, perchè non sarebbe solido nè durevole". Bernini replicò sostenendo che 16 anni prima aveva già realizzato la fontana di Piazza Navona con un obelisco sistemato su una roccia vuota.

Ma i Domenicani si impuntarono e pretesero il “cubo” e Bernini dovette arrendersi, ma a modo suo. Lo scultore, che non aveva certo un carattere accomodante, mise in atto uno scherzetto niente male nei confronti dei “simpatici” Domenicani. Nella realizzazione finale, infatti, Bernini pose l'elefantino sopra la base cubica, parallelamente all’entrata della Chiesa, ma con la testa voltata verso l’esterno ossia dalla parte opposta della porta principale, mentre la coda era girata verso sinistra accentuando una posa un po’ irriverente. In pratica Bernini aveva sistemato l’elefantino al contrario rispetto all’entrata della chiesa! Fu lo stesso papa Alessandro VII a dettare le iscrizioni ai lati del piedistallo. Una di esse spiega la ragione dell'Elefante: "Oh tu che vedi qui, portato da un Elefante (il più forte degli animali) i geroglifici del saggio Egitto, capisci l'avvertimento: c'è bisogno di una mente forte per sostenere la solida Conoscenza". A questo gioiello di scultura i Romani diedero il burlesco ed affettuoso nome di “porcino della Minerva”, successivamente modificato in “pulcino della Minerva”, con cui è tuttora chiamato.

Giulio Romano, studi di elefante




martedì 21 febbraio 2012

I balli di Sfessania di Jacques Callot

Ultimo giorno di carnevale voglio condividere la serie quasi completa di stampe dette "I balli di Sfessania" di quel genio dell'incisione che è Jacques Callot. Col suo personalissimo segno grafico, vibrante e preciso, descrive una serie di maschere della commedia dell'arte intente a ballare il ballo di Sfessania, secondo alcuni la forma più antica di tarantella partenopea. La serie, edita tra il 1621-1622 è da molti ritenuta la più bella prova grafica dell'incisore francese. (un articolo di Mauro Gioielli).

















domenica 19 febbraio 2012

La cattedra di San Pietro del Bernini

Per non dimenticare la grandezza dell'arte cristiana, la profondità dei significati teologici che un'opera può contenere e la ricchezza del suo insegnamento, anche per orientare verso una giusta lettura, voglio condividere l'omelia del Santo Padre Benedetto XVI che oggi, Solennità della Cattedra di San Pietro, ha riflettuto sulle valenze e sulla simbologia della Cattedra di Pietro realizzata dal Bernini per la chiesa San Pietro. Una lettura diversa dell'opera d'arte che di certo può arricchire la sua comprensione.


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
 

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti.
Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.

Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana. 

Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).

Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19). 

Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue». 

L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.

Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra. 

Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.

La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo. 

La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro - con la “A” maiuscola - da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.

La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico. 

Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore. 

Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia. 

L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico - l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze. 

Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede.

La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa. 

I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede dell’unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità.

Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.

Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono. 

La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.

Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana



Per contrasto voglio mostrare un'odierna opera di arte sacra. E' la decorazione della cappella di Sant'Andrea a Ganz realizzata nel 2003 dall'artista Otto Zitko. L'artista, originale a suo modo nel declinare i moduli di una pittura gestuale e informale, in particolare in grandi spazi che rende claustrofobici e indefiniti, mostra però in questo caso tutta l'inadeguatezza verso un ambiente liturgico.



giovedì 16 febbraio 2012

Le ceramiche di Giò Ponti


amore per l'antichità
Tra le opere più affascinanti del Novecento italiano annovero di certo le ceramiche di Giò Ponti. Ponti, architetto e designer italiano, proprio in questi oggetti decorativi ha dato il meglio di sè per la freschezza dell'inventiva, la genuinità del disegno sintetico e l'unione di tante e svariate influenze in un'unico stile ecclettico e ricercato. I decori ispirati all’arte greca, romana, etrusca e all’architettura palladiana ma anche alle recenti conquiste del cubismo (analitico e sintetico) e dell'astrattismo sono quanto di più studiato e spontaneo allo stesso tempo. Mai una linea di troppo o un contorno che sfiora la retorica delle forme, mai un tentennamento nel segno o nella struttura. Tutto è calibrato e armonico col colore, mai invasivo, che costruisce la struttura più che decorarla. Inizialmente nelle ceramiche il suo disegno riflette la Secessione viennese e sostiene che decorazione tradizionale e arte moderna non sono incompatibili. In seguito riscopre i valori del passato, il razionalismo e il realismo magico tanto che trova sostenitori nel regime fascista incline alla salvaguardia dell’identità italiana e al recupero degli ideali della “romanità” che si esprimerà poi compiutamente in architettura con il neoclassicismo semplificato del Piacentini. Bellissimo l'originale e vitale recupero dell'antichità. "Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte" soleva ripetere l'artista e allora si comprende come queste ricerche di designer non tentavano tanto ad estetizzare l'oggetto comune quanto riscoprivano tutta la prassi della bottega che creava, anche l'accessorio più inutile con la stessa perizia e attenzione adoperate ad esempio per una tela. La serie più significativa è stata quella realizzata dalla manifattura Richard Ginori, di cui Gio Ponti fu direttore artistico negli anni Venti, con la produzione che si colloca tra il 1923 e il 1930 destinata alla ricca borghesia milanese. 

"Le opere rivelano l’originalità e la straordinaria modernità di questo “neoclassico a Milano”, come fu definito da un critico d’eccezione quale Carlo Carrà, che recensì la primaMostra internazionale di arti decorative a Monza nel 1923, elogiando il giovane architetto per le sue prime ceramiche. E si può tranquillamente affermare che il grande pittore aveva visto giusto, dato che due anni dopo Ponti presentò le sue opere alla Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi, vincendo il “Gran Prix”. Le immagini su vasi, centritavola e maioliche traggono ispirazione dall’antichità classica per le figure mitologiche, ma non mancano vedute prospettiche di chiaro stampo rinascimentale o ancora, sfondi teatrali e personaggi Déco, fusi in uno stile nuovo e inconfondibile che sembra quasi surrealista. Il tutto è sospeso, infatti, in una dimensione quasi metafisica, come sospesi sono i personaggi e gli oggetti raffigurati: donne formose avvolte tra le nuvole, animali, clown, barche. Il richiamo all’antico è facilmente riconoscibile: ogni opera presenta forme e decorazioni che si rifanno all’arte vascolare greca, etrusca e romana, come coppe e cisti (c’è anche quella che Ponti dedicò al più temuto critico di allora, Ugo Ojetti).Ad introdurre la mostra, una decina di grandi foto che riproducono particolari del Pirellone: buona l’idea di riutilizzare proprio il 'contenitore' della mostra per confrontare spazi e linee con le ceramiche (e questo fa la differenza rispetto alle tante altre mostre analoghe sul Ponti ceramista, recenti e lontane). Peccato che manchino le informazioni sulle architetture; e comunque si sarebbero potuti aggiungere altri scatti nel percorso, ad esempio in fondo nell’ultimo angolo rimasto 'sguarnito'" (fonte).

Per approfondire consiglio questo libro: Giò Ponti. Il fascino della ceramica.
prospettiva



putti con serpente




le attività gentili

passeggiata archeologica

allegoria dell'architettura

mercoledì 15 febbraio 2012

L'impero dell'occhio


L'impero dell'occhio, ovvero l'arte barocca e il teatro della meraviglia. Cicli d'affreschi progettati per docere e delectare, ma sopratutto stupire mostrando la magnificenza della Chiesa e dei suoi santi. Ricordo una riflessione che metteva in relazione l'effetto di spaesamento, quasi di viaggio in un'infinito pittorico, dei cicli barocchi con la semplice postura del visitatore che, stando per molto tempo con la testa alzata per decifrare la moltitudine di scene e di figure, alla fine, inevitabilmente, provava anche fisicamente un senso di vertigine. Questo interessante video ci mostra tutto lo splendore della Gloria di Sant'Ignazio di Andrea Pozzo affrescata nella chiesa di asant'Ignazio a Roma, proponendo anche una costruzione in 3d dell'architettura dipinta nella navata.

martedì 14 febbraio 2012

Iconos - viaggio interattivo nelle metamorfosi d'Ovidio

Se in questa giornata di S. Valentino avete voglia di storie d'amore vi consiglio questo sito: ICONOS. E' un progetto curato dalla cattedra di Iconografia e Iconologia della prof. Claudia Cieri Via del Dipartimento di Storia dell'Arte della Facoltà di Scienze Umanistiche dell'Università di ROMA "La Sapienza" ed è stato progettato per giungere alla costituzione di un repertorio mitologico online relativo sia alle immagini - per l'arco temporale che va dall'antichità al XVIII secolo - che ai testi: classici, medioevali e rinascimentali. Alla base del progetto ICONOS vi è una ricerca che prende le mosse dall'analisi delleMetamorfosi di Ovidio, opera come si sa fondamentale per la produzione iconografica (considerando che circa un 80% della materia mitologica ispira la produzione artistica), specie in età umanistica e rinascimentale, la cui struttura narrativa, organizzata per episodi mitologici spesso tra loro connessi, è incentrata sul topos della trasformazione. Un immenso archivio dove sono analizzate le singole storie tratte dai libri, catalogate e ritrovate in tutte quelle opere che si sono susseguite dall'antichità al rinascimento. Un lavoro altamente scientifico, utile come repertorio ma anche per una consultazione veloce. Il tema di questo mese è il Ratto d'Europa, l'immagine in basso, invece, raffigura Polifemo e Galatea in un sensualissimo bacio. Il "quadretto" oggi esposto nella sezione del Gabinetto Segreto del MANN, venne staccato dalla parete sud di un'esedra che affacciava sul peristilio della Casa della Caccia Antica a Pompei. Le bianche, morbide carni della ninfa spiccano sul corpo "brunastro" di Polifemo che cinge "animalescamente" la preda tanto desiderata. Da notare che siamo in presenza di una versione piuttosto rara del mito in quanto Galatea, nella versione "ufficiale", non si "offrì" mai al ciclope poiché perdutamente innamorata del bellissimo pastorello Aci, ucciso per gelosia dallo stesso Polifemo con un masso e dal cui sangue scaturì appunto il fiume Aci che ancora oggi scorre presso le pendici dell'Etna.


domenica 12 febbraio 2012

L'inganno del critico - Jean Clair

Jean Clair riesce sempre ad aprirci gli occhi sulle dinamiche dell'odierno sistema dell'arte

Poussin - Autoritratto
Provo sempre un sentimento di disagio quando mi si applica la qualifica di "critico d' arte". L' origine del termine è tra le più incerte, il suo impiego è tra i più vaghi, la sua serietà tra le più contestate. Poiché requisito dell' arte è il silenzio - Poussin diceva che «la pittura concerne le cose mute» - il critico d' arte non potrà che esserne la protesi, una sorta di ventriloquo dell' arte. L' etimologia della parola sembra, in verità, suffragare questa interpretazione. È un termine che rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l' arte. In ogni caso è in questa prospettiva che l' attività "critica" acquista un senso. Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un' origine medica e si riferirebbe a quel momento - krisis - dell' evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo. E critico è il medico che sa ravvisare quel momento, influenzando così la prognosi. La critica d' arte come attività specifica compare, in effetti, in un momento in cui, dopo tanto risplendere, l' arte comincia ad essere preda della malattia o di ciò che Manet - che ne fu uno spettatore consapevole - chiamerà la sua "decrepitudine". L' attività critica diventa un rimedio a questo male. Il critico è, dunque, una invenzione recente, che risale all' incirca al XVIII secolo. Non vi era crisi nell' arte arte antica, nell' arte d' Antico Regime. Non vi erano dei "critici" ma dei giudici, incaricati di verificare la conformità delle opere a dei canoni,a delle norme invariabili, a dei programmi iconografici precisi. Non si critica la muscolatura di un eroe la cui figura è conforme al canone di Policletoo di Vitruvio. Non si critica la rappresentazione di una Deposizione dipinta da un artista per un convento. Si verifica se esse siano conformi a dei programmi, dei trattati di proporzione, dei dogmi religiosi, dei paradigmi. Credo che sia proprio nel momento in cui il corpo dell' arte si ammala, che il critico d' arte entra in scena. Pensiamoa Diderote alle sue critiche dei Salons, scritte quando le opere d' arte non rispondono più a una committenza pubblica, religiosa o principesca, ma sono l' espressione di un gusto individuale in vista di un pubblico profano. È anche il momento in cui la nozione di "Belle Arti", rispondente a regole, canoni, teorie, paradigmi, scompare a profitto de "l' Arte" tout court, qualità propria ed inimitabile di un individuo che si vuole creatore e si crede un genio. È allora che, a partire dal 1750, in corrispondenza con questa scomparsa, nasce l' Estetica, una nuova scienza che si accinge a prendere in esame l' infinita varietà delle sensazioni e la diversità delle sensibilità corporee, senza più tener conto dei canoni antichi. Fintanto che l' arte era destinata agli Dei e ai Potenti, la valutazione critica - fenomeno umano, troppo umano - non aveva alcun senso. È quando l' arte diventa oggetto di diletto per dei privati che vediamo l' emergere di una critica privata e di quel bizzarro mestiere - a malapena un mestiere - a cui andrà il nome di critico d' arte. Fin dalla sua origine, tuttavia, l' arte è sempre stata sottomessa alla parola. La formula di Cicerone, docere, delectare, movere, che definisce l' arte della parola, la retorica, verrà presto estesa all' arte plastica, l' arte delle forme e dei colori, anche essa capace di eloquenza e, dunque, di "ben dire". Nicolas Poussin - ancora lui! - farà propria la formula: docere et delectare. Colui che parla dell' arte, l' oratore, il critico, sarebbe, in fondo, la voce che spiega e che forse impartisce direttive alle voci del silenzio, alle voci delle Belle Arti. Non ci dimentichiamo che Fidia stesso fu un oratore e che, in musica, l ' Offerta musicale di Bach viene composta sul filo della lettura dell' Istituzione oratoria di Quintiliano. Quel che bisogna conservare, e non criticare, è questo dialogo tra le arti - la pittura, la musica, l' architettura, la retorica - perché, pur rispondendo a discipline diverse, esse obbediscono tutte alla stessa armonia. Eppure il dialogo è venuto meno. Il tempo in cui un' unica e uguale armonia dettava le leggi di un quadro, di una composizione musicale, di un' architettura o di un corpo umano si è concluso. 

Nato da questo dialogo spezzato, un nuovo regime si instaura a partire dal momento in cui il critico d' arte si fa carico della responsabilità che fino ad allora era stata di pertinenza dello scrittore, del musicista, del poeta, per diventare il ventriloquo di un' arte che, privata del suo rigore retorico, è più muta e confusa che mai. E - peggio ancora - per imporsi come una sorta di spettro che viene ad abitare il corpo muto della pittura, fino a dirigerne dall' interno gesti e atti. Una critica d' arte? Piuttosto un magistero sconfinante con l' ossessione spiritica. Se i programmi iconografici o le regole estetiche scompaiono è allora a profitto di programmi politici, presto chiamati manifesti. Il critico non può che mettersi al servizio di un programma, diventa un portavoce, meglio ancora un profeta che apre la via e che battezza: la sua missione non è più quella di difendere un canone ma una causa. Da consigliere delle corti e dei salotti a eminenza grigia del regime il passo sarà breve. Se la politica si è estetizzata, presto sarà l' estetica a politicizzarsi. I nuovi "critici" saranno Bottai o Lounatcharski, ma presto anche Jdanovo Goebbels (egli stesso scrittore), al servizio di despoti capaci di ridurvi al silenzio, all' ergastolo. La critica non ha più posto nella divulgazione di un' arte che è ridiventata un' arte ufficialee di culto. Il fatto che ogni gesto sia codificato, ogni attitudine conforme, ogni sorriso sottoposto a verifica, ma anche ogni colore vagliato esclude l' intervento di qualsivoglia esercizio "critico". Questo va da sé. Ma, a rischio di apparire paradossali e provocatori, andiamo oltre, in direzione dell' arte "borghese" favorevole alla critica "formalista": quale critico avrebbe osato, negli anni ' 30, criticare le forme dell' avanguardia, che nel frattempo erano diventate delle formule? Chi avrebbe osato criticare la doxa del cubismo,o le prescrizioni maniacali degli adepti dell' astrazione geometrica alla Mondrian? Una volta di più, il critico non era un compagno di strada, ma colui che forniva le formule, i programmi. Impone le parole d' ordine, le formule, i manifesti e all' artista di ubbidire. L' impostura si spingerà ancora più lontano quando, negli anni ' 60, finito da tempo il programma utopico delle "avanguardie", si continuerà nondimeno a usare il termine "avanguardia", a servirsene come di un marchio di fabbrica, di uno slogan di cui il critico diventa allora l' uomo sandwich. Più tardi, negli anni ' 90, quando l' impostura divenne ancora più evidente, si inventò il termine di "arte contemporanea" per distinguere colui che nella attuale produzione emergeva munito di una qualità che lo rendeva - lui e lui solo - capace di garantire della qualità della "contemporaneità" come di un grado superiore di presenza al momento presente, e che fa sì che Jeff Koons sia più "contemporaneo" di Botero- quando in realtà sono entrambi ugualmente kitsch. Il critico ridiventò allora il personaggio centrale di questa manipolazione. C' era bisogno di una operazione singolare, di una sorta di catalisi perché la sua parola assumesse la forza di un dogma. La catalisi la si ottiene aggiungendo ai suoi lati due figure essenziali: lo storico d' arte e il mercante. Il mercante è quello che fornisce la mercanzia, lo storico d' arte colui che ne attesta la provenienza. Al critico non resterà più che autentificarne la qualità e tentare di descriverla con le sue parole. Se parlo con tanta convinzione di questo processo è perché io stesso ne ho fatto parte. Non sono più un critico d' arte da molto tempo, ma lo sono stato quanto basta per avere la misura dei limiti di questo strano mestiere. 

Nel 1970 creai, poi diressi per quattro anni, una rivista di avanguardia, Chroniques de L' Art Vivant. Assai prima di riviste come Art Press o Teknikart, che oggi danno il "la" in fatto di mode estetiche, L' Art Vivant fu la prima a lanciare in Francia la passione dell' avanguardia. Vi apparvero i primi articoli su artisti, allora pressoché sconosciuti, come Boltanski e Buren - ne fui l' autore-e sulle prime stelle della Scuola minimalista americana come David Judd o Robert Ryman. Vi pubblicammo anche le prime interviste a Joseph Beuys e un numero speciale consacrato agli artisti dissidenti dell' Unione Sovietica, che mi valsero una convocazione minacciosa dell' Ambasciatore dell' Urss a Parigi. Nel 1974 misi fine a questa esperienza. Avevo sperimentato l' impostura che poteva rappresentare una pubblicazione consacrata a dei movimenti così detti d' avanguardia. Avevo visto com' era possibile, nel giro di sei, otto mesi, lanciare sul mercato dell' arte nomi o prodotti. La condizione era quella di riuscire a creare quella triade miracolosa di cui ho parlato prima: mettere d' accordo fra di loro per osannare lo stesso artista, un conservatore di museo, tutto eccitato di riscaldarsi ai fuochi dell' attualità, uno storico d' arte, ugualmente felice di lasciare i suoi studi per riscaldarsi al calore degli atelier dei giovani creatori, un giovane critico ambizioso e naturalmente un mercante per aiutare, sul piano materiale, questa trinità a rivelare al profano i misteri dell' Avanguardia... Potei inoltre verificare, come aveva mostrato McLuhan, che il supporto, il medium, diventava il messaggio. Poco importava l' oggetto: era la sua esposizione, la sua messa in valore, il modo di fotografarlo, le parole per descriverlo che lo facevano esistere, non il suo valore intrinseco. Questa esperienza delle arti fittiziee dei mercati ingannevoli mi allontanò per sempre dalla critica. Vi acquistai una certezza: che la storia dell' arte moderna e contemporanea è fatta di cliché - nel senso quasi tecnico del termine - e che era venuto il momento di scriverla. Intrapresi questa riscrittura in due modio su due scale. Intendevo fare vedere che la concatenazione delle scuole e dei movimenti d' avanguardia era una illusione retrospettiva di cui bisognava liberarsi. Così ideai due mostre che mi valsero la reputazione di reazionario o di revisionista. Nei Realismi tra le due guerre del 1981 (Centre Pompidou), cercai di smentire la doxa secondo cui l' arte tra le due guerre aveva segnato il trionfo dell' astrattismo e l' inizio del primato dell' arte americana. In realtà, tra le due guerre, dalla "Neue Sachlichkeit" tedesca ai "Valori Plastici", si era fatto ritorno al soggetto, al classicismo e alla forma. E nel 1995, per il centenario della Biennale di Venezia, tentai ugualmente, con la mostra Identità-Alterità, di dimostrare che l' arte del XX secolo aveva segnato il trionfo del ritratto. Al contempo le mie curiosità sull' arte di oggi mi spinsero a cercare degli artisti viventi il cui genio potesse corrispondere a questa storia rivisitata di cui cercavo di riscrivere le tappe. Si trattava ancora di critica? Sì se, come abbiamo visto, si intende con ciò l' arte del terapeuta che formula una diagnosi. O ciò che Kant aveva definito come critica in relazione alla Ragion pura e da cui noi non avremmo mai dovuto scostarci: una rivoluzione copernicana del nostro modo di comprendere il mondo a prescindere dalle mode e dai capricci dei nostri sensi. (Traduzione di Benedetta Craveri)

JEAN CLAIR su Repubblica 5 febbraio 2012

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