venerdì 29 aprile 2011

Jean Clair - Il culto dell'avanguardia e la cultura di morte

Da uno dei più interessante, secondo me, storici dell'arte contemporanea, Jean Clair, una pagina di sentita analisi della situazione odierna dell'arte contemporanea in rapporto alla fede e alla religione cristiana. L'abuso degli impulsi bassi come l'esaltazione dell'orrido e dell'immondo viene messo in contrapposizione col culto della bellezza e la realizzazione di immagini sacre che da sempre hanno avuto quali regole la forma e la claritas.




Ripresa e commentata da questo post su Almanacco Romano, divenuto ormai lettura imprescindibile.



martedì 26 aprile 2011

Ischia è l'Isola dei Morti

Interessante. Pare che si sia finalmente trovato il luogo preso a modello, o meglio spunto, da Bocklin per la celebre tela de L'Isola dei Morti, capolavoro dell'arte simbolista dell'800 e realizzata in ben cinque versioni.

Lo studioso svizzero Hans Holenweg, docente di storia dell’arte all’Università di Basilea, domani all’inaugurazione al Palazzo comunale della rassegna, a cura di Giovanni Faccenda, «Isole del pensiero. Böcklin, De Chirico, Nunziante», annuncerà che uno dei quadri più noti del secondo Ottocento, la simbolista «Die Toteninsel» (L'isola dei morti) dipinta da Arnold Böcklin, ha come modello l’isola di Ischia. Come riporta il «Corriere della Sera» Holenweg, curatore dell’archivio di Böcklin, ha scoperto una lettera scritta dal pittore a Firenze il 19 maggio 1880 da cui si apprende che il titolo al dipinto venne assegnato dallo stesso autore e non, come pareva, dal gallerista di Berlino Fritz Gurlitt. Ma notizia più importante è quella del luogo che Böcklin ha ritratto nel quadro noto in cinque versioni: né il Cimitero degli inglesi di Firenze né uno scoglio dell’isola greca di Corfù, ma l’isola di Ischia con il castello di Alfonso d’Aragona. La mostra rimarrà allestita fino al 19 giugno. 






martedì 19 aprile 2011

Rodolfo Papa - Riflessioni sull'arte contemporanea - Parte III

Riflessioni sull'arte è il titolo di una rubrica quindicinale che il prof. Rodolfo Papa tiene su Zenit (il mondo visto da Roma) su questioni dell’arte e dell’arte sacra in tutte le loro diverse dimensioni: teoretica, critica, tecnica, storiografica, filosofica, teologica, liturgica, antropologica. Lo scopo, come afferma il professore,"è condurre una riflessione sulle complesse e urgenti problematiche che attorniano l’arte, tenendo conto di tutti gli aspetti che ne compongono il vasto territorio". Continua con questo post la presentazione dei suoi articoli, importanti a mio avviso per leggere l'arte contemporanea sotto un'altra ottica, più filologica e meno allineata. I testi sono accompagnati dalle immagini delle ultime tre campate della cattedrale di Bojano (IS) da poco ultimate dallo stesso professore, e che segnano la conclusione dell'importante ciclo pittorico. Per gli altri articoli:



Cacciata dal Paradiso
Per secoli nelle chiese di tutta la cristianità si è sviluppato un sistema complesso di catechesi e di spiritualità mediante le immagini. Infatti, le verità di fede sono state raffigurate nei cicli pittorici e scultorei ed espresse in forma simbolica nelle forme dell’architettura. La struttura dell’edificio sacro, infatti, non risponde solo a criteri funzionali, ma è fede espressa in tettonica, secondo una ricca e complessa simbologia, che è stata fonte viva dell’architettura sacra di ogni epoca.
La chiesa, in tutta la tradizione, è dunque un luogo sacro rappresentato e costruito come tale, ed inoltre è luogo di formazione catechetica, di annuncio kerigmatico, di preghiera, di meditazione ed ogni elemento che la costituisce è pensato in questa prospettiva.
Spesso si sottolinea che i cicli pittorici, in modo particolare di alcune epoche storiche, siano delleBiblia pauperum. Sovente questa definizione viene interpretata in modo scorretto, con conseguenze anche gravi. Infatti i cicli pittorici sacri vengono ritenuti un sistema di educazione per analfabeti e “illetterati” e di conseguenza sono giudicati superati, inutili, addirittura dannosi, giacché nel mondo occidentale l’analfabetismo è stato debellato. Ma la questione è più complessa, e merita attenzione.
Innanzitutto, se osserviamo i cicli pittorici in questione scopriamo alcuni elementi che inducono a una riflessione più profonda. Per esempio, la presenza di scritte, in latino, o in greco o più raramente in volgare, risulterebbe incomprensibile se davvero si trattasse di dipinti sostitutivi della scrittura. Parimenti, i dotti rimandi iconografici evidenziati dalle complesse letture iconologiche effettuate dagli storici dell’arte sembrerebbero inappropriati se si trattasse di narrazioni semplificate per incolti. Allora occorre prima di tutto tenere presente il contesto culturale nel quale essi nascevano e per il quale erano realizzati. Occorre inoltre chiarire che l’incapacità di leggere e scrivere non è necessariamente sinonimo di ignoranza dottrinale. Credo sia esperienza comune ai docenti di iconografia cristiana constatare che spesso quello che gli studenti universitari ignorano e devono apprendere con fatica, è invece ben conosciuto da alcune vecchiette semi analfabete, che praticano con regolarità e semplicità nella propria vita di devozione e di fede. Per esempio riconoscere una “Immacolata concezione” e distinguerla da una “Assunta”, o ancora riconoscere un “San Nicola di Mira”, o un “San Trifone” è cosa complicata per gli studenti universitari, ma semplicissima per la vecchina ancorata alla sua fede e alla tradizione.
Inoltre, la presenza delle scritte testimonia che i cicli pittorici erano realizzati per tutti i fedeli. La scrittura del nome del santo accanto alla sua immagine non aveva tanto una necessità funzionale, piuttosto rispondeva ad una esigenza teologica, indicando che il nome del santo o della santa è scritto a lettere d’oro nel cielo. Peraltro si ricollega ad una antica tradizione latina, secondo la quale il nome del console o dell’imperatore ritratto veniva riportato per iscritto non per rendere noto il nome, ma per poterlo celebrare in termini politici.
Infine, la riflessione più importante riguarda la categoria evangelica dei “pauperes”. Non si tratta semplicemente dei poveri, gli ignoranti, gli illetterati, ma di tutti i poveri in spirito. Le Biblia Pauperum sono dunque dipinte o scolpite o architettonicamente edificate per tutti coloro che umilmente si accostano alle verità di fede, ricchi o poveri, colti o incolti.
Dunque le Biblia pauperum non sono dedicate agli “analfabeti” in senso scolastico ma, paradossalmente, proprio l’assenza di Biblia pauperum, motivata scorrettamente dal pretesto della scolarizzazione generalizzata, ha avuto come effetto l’analfabetizzazione iconografica. Se un tempo le vecchine illetterate sapevano leggere le immagini, adesso i giovani scolarizzati non intendono nulla di iconografia cristiana, avendone del tutto perso la consuetudine, avendo peraltro frequentato perlopiù chiese prive di immagini sacre e progettate secondo criteri puramente funzionalisti. Allora, paradossalmente, gli unici che sanno oggi leggere le Biblia pauperum sono i “professori”, coloro che hanno un dottorato in storia dell’arte.
Ecco allora che sono le stesse chiese, se concepite globalmente come luogo liturgico e di formazione, che possono insegnare le verità di fede ed anche il linguaggio per poterle apprendere. A questo proposito possiamo guardare alla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze che è stata nella storia una sorta di laboratorio, in cui sono state progettate soluzioni poi diffuse gradualmente ovunque, dunque un luogo di ricerca, una grande opera esemplare. In questa chiesa, di ambito domenicano, vediamo come i cicli di affreschi non siano concepiti semplicemente come sussidio per gli ignoranti, ma come vere e proprie predicazioni, parte attiva di una complessa struttura, impegnata in un’efficacia di tipo spirituale, psicologico, affettivo, nella complessa attuazione del carisma volto alla predicazione e alla evangelizzazione. Al proposito è esemplare, per esempio l’affresco di Andrea Bonaiuti, Specchio della predicazione dei domenicani, eseguito tra il 1366 e il 1367 nella Sala Capitolare del complesso conventuale di Santa Maria NovellaAl centro esatto dell’affresco, è rappresentato san Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori ed espressione dell’essenza del carisma della predicazione; la composizione propone due momenti rappresentanti due eventi cronologicamente successivi: ovvero l’ascolto della predicazione e il sacramento della riconciliazione, cioé il frutto della predicazione che matura nel cuore di chi ha saputo ascoltare. Nel volto del frate confessore, inoltre, è possibile riconoscere fra Jacopo Passavanti, contemporaneo di Buonaiuti, autore di un noto testo intitolato Specchio di penitenza.
Buonaiuti nel suo affresco rappresenta la predicazione e il suo effetto, la penitenza, realizzando in questo modo una vera predicazione pittorica, una “immagine acustica”, una immagine che predica. Con lo stesso metodo con cui Passavanti ha scritto il suo testo, Buonaiuti dipinge il suo affresco. In questo modo si crea una esplicita rispondenza tra le parole pronunciate nella predicazione dai Domenicani e le immagini conservate nella chiesa, in una straordinaria esaltazione della capacità di predicazione propria dell’arte sacra.
Tutto questo stimola fortemente anche noi oggi, spingendoci a pensare o a ripensare le nostre chiese affinché siano concepite come immagini acustiche, vive, capaci di riecheggiare nel cuore e nella mente dei fedeli. Perché ciò accada, serve un’arte capace di farsi carico della narrazionedei misteri, capace di mostrare con la composizione l’articolazione del messaggio di fede, l’intimo dinamismo finalistico che pervade ogni cosa e ogni persona, verso il vertice, che è l’Alfa e l’Omega, movente e meta di ogni conversione, inizio e compimento, capo e testata d’angolo dell’immenso corpo mistico della Chiesa.


L’ARTE COME STRUMENTO DI SPIRITUALITÀ: LA PROSPETTIVA


Adamo ed Eva nell'Eden (particolare)
La grande mistica di San Francesco, all’inizio del secolo XIII, reca un grandissimo contributo anche alla questione artistica, valorizzando in maniera forte ed originale l’esperienza della visione come vera esperienza spirituale. Questa innovazione fa parte del generale rinnovamento vissuto e recato dal santo di Assisi. Infatti, nel contesto della sobrietà austera della vita monacale, san Bernardo di Chiaravalle, a metà del secolo precedente, saggiamente esponeva la propria preoccupazione che la bellezza delle immagini scolpite nelle chiese potesse distrarre i monaci dalla meditazione sulle scritture.
San Francesco, invece, scrive e predica in volgare rivolgendosi a tutti, colti ed incolti. Egli propone una meditazione che parte dalla contemplazione del Creato per giungere alla meditazione dei dolori della Croce. Proprio entro tale meditazione, avviene la grande innovazione, artistica e spirituale, della sacra rappresentazione della Natività: il Presepe di Greccio. Proprio la proposta liturgico-spirituale del Presepe pone al centro della esperienza spirituale il senso della vista, come mezzo efficace di contemplazione. Inoltre il realismo rappresentativo diventa mezzo di partecipazione affettiva del fedele ai fatti narrati dai Vangeli. La vista viene esaltata come un senso spirituale e la rappresentazione artistica come strumento di spiritualità.
La questione delle immagini viene affrontata esplicitamente dal Capitolo generale dell’ordine francescano, presieduto da Bovanentura da Bagnoregio a Narbona nel 1260; nelle Costituzioniviene affermato che le pitture e le sculture che decorano le chiese non devono possedere elementi “superflui” o “insoliti”. L’immagine non deve, dunque, sollecitare la fantasia, o servire il sentimentalismo, ma deve essere sobrio strumento di devozione, di meditazione e di formazione. A conferma di questo, assistiamo alla fioritura, all’interno delle chiese di tutto l’ordine, di opere artistiche dal linguaggio narrativo, ricco di particolari realistici: l’immagine, così come il Presepe di Greccio, deve rendere presente l’evento evangelico e, soprattutto, deve aiutare il fedele ad essere presente egli stesso ai sacri eventi.
Un riscontro evidente di questo clima artistico, si riscontra già nel dossale d’altare rappresentante San Francesco e sei episodi della sua vita di Bonaventura Berlinghieri, realizzato nel 1235 per la chiesa di San Francesco a Pescia; vediamo, infatti, che il particolare narrativo è il centro della rappresentazione pittorica, che raffigura la natura e gli animali. Questo tipo di immagini traduce in termini artistici il “realismo” narrativo della Vita prima, scritta da Tommaso da Celano, che pervade anche le successive biografie. Il senso realistico della narrazione diventa una caratteristica della spiritualità occidentale, ed è testimoniato non solo in ambito francescano e non solo nelle arti figurative: per esempio nelle Laudi del francescano fra Jacopone da Todi o ancora nelle Meditationes Vitae Christi, testo estremamente diffuso, in cui la vista di Cristo narrata dai Vangeli, è tradotta in immagini ricche di particolari; anche la Legenda Aurea, scritta alla fine del Duecento dal vescovo domenicano Jacopo da Varazze, esprime la stessa necessità narrativa e diventa, peraltro, esso stesso strumento di realismo artistico: infatti la Legenda Aurea è indubitabilmente una delle maggiori fonti iconografiche per gli artisti, fino a tutto il XVII secolo.
L’esigenza spirituale di rappresentare la realtà corporea e di narrare gli eventi storici, in modo da servire la predicazione e la meditazione, implicano lentamente un ripensamento dell’arte a favore di una maggiore capacità mimetica. In questo contesto artistico e spirituale, il fondo a foglia d’oro, tipico delle icone bizantine, finalizzato alla rappresentazione di una dimensione spirituale atemporale, viene giudicato meno adeguato alla rappresentazione dei fatti narrati nei testi sacri. Emerge anche la volontà di rappresentare in maniera visibile l’effettiva "contemporaneità" del fedele alle narrazioni evangeliche; per questo Cristo e i santi sono rappresentati come presenti in mezzo ai fedeli e, di rimando, i fedeli vivono, attraverso una dimensione spirituale "affettiva", un maggiore coinvolgimento contemplativo.
Questa tonalità spirituale è presente anche in testi devozionali, ed è esplicitamente messa a tema in lavori teorici come per esempio il Mitrale di Sicardo, vescovo di Cremona, che, riflettendo sulla tridimensione delle sculture, conclude che queste, proprio perché ad alto rilievo, vengono percepite come presenti e familiari ai fedeli, invitandoli alle azioni virtuose, grazie alla loro naturalezza. Anche il domenicano Tommaso d’Aquino motiva l’uso delle immagini, non solo come strumento di formazione dell’incolto, ma anche per la capacità di muovere l’affetto del fedele ad una maggiore devozione. Anche nel Rationale scritto da un canonista della curia romana, Guillelme Durand vescovo di Mende, viene esplicitato che l’immagine dipinta è superiore alla scrittura perché implica il coinvolgimento della vista.
La complessità di questi elementi, nati in ambito spirituale e pastorale, vengono assorbiti dagli artisti che collaborano alla realizzazione delle nuove chiese e delle nuove cattedrali. L’esigenza di rappresentare il mondo reale con adeguata capacità mimetica si traduce in una attenzione maggiore alle luci e alle ombre, per rappresentare meglio i volumi dei corpi; questo appare, per esempio, nelle opere di Giotto e dei suoi seguaci. Soprattutto la spiritualità del Duecento implica una particolare costruzione geometrica dello spazio rappresentato, capace di rendere presente la rappresentazione, ed è da questa esigenza che nasce la prospettiva. La prova di questo evento storico si trova proprio nella Basilica superiore di Assisi, nei due affreschi che si interpongono cronologicamente tra le decorazioni più antiche e gli interventi decorativi di Giotto, ovvero gli affreschi che rappresentano Le storie di Isacco.
L’autore, noto come il Maestro di Isacco realizza infatti una mirabile rappresentazione dello spazio, dimostrando di possedere una tecnica prospettica compiuta. Poiché questo modo di concepire lo spazio si ritrova tra i contemporanei anche (e forse unicamente) nella scultura di Arnolfo di Cambio, un’ipotesi affascinante (avanzata a suo tempo da A. M. Romanini), afferma che il Maestro di Isacco sia proprio lo stesso Arnolfo, ovvero il proto-inventore della prospettiva moderna. In ogni caso, ciò che risulta patentemente è che la grande innovazione della prospettiva accade nella pittura per motivi di ordine spirituale, per rendere presenti gli eventi sacri e per rendere i fedeli contemporanei ai fatti narrati.

(Sul medesimo argomento, si rimanda a R. Papa, La prospettiva dello spirito, in “ArteDossier”, 258 (2009), pp. 68-73)

LA “BELLEZZA” CHE NON C’È


Che cos’è la bellezza? Una lunga tradizione filosofica ha riflettuto sulla bellezza, cercando di spiegare che cosa essa sia, come la conoscono gli uomini, come ne godono, approfondendo l’esperienza comune, che è il punto di partenza di ogni buona riflessione.
Dalla riflessione emerge che la fruizione della bellezza, sia essa naturale che artistica, si caratterizza per un “piacere” che coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
La bellezza intrattiene un particolare rapporto con la vista. San Tommaso con la sua celebre affermazione «Pulchrum est quod visum placet» (Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 1um) indica che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento: il bello è “gradevole alla conoscenza” (Ibid., II-II, q. 27, a. 1, ad 3um), perché il bello richiede di essere “conosciuto”.
La bellezza, inoltre, rivela delle caratteristiche costanti, quali l’armonia e la regolarità, che lo stesso san Tommaso rinviene nella “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, nella “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e nella “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale: «La bellezza del corpo consiste nell’avere le membra ben proporzionate(debita proportio), con la luminosità del colore dovuto (claritas). La bellezza spirituale consiste nel fatto che il comportamento e gli atti di una persona sono ben proporzionati (proportio) secondo la luce della ragione (claritas)» (Ibid., I, q. 39, a. 8, resp.). Questa definizione della bellezza, che pure taluni tacciano di intellettualismo, costituisce l’analisi razionale di esperienze comuni, generali; a conferma di ciò, ci sono oggi svariate ricerche di ordine psicologico e antropologico che confermano come, fin da bambini e indipendentemente dalla cultura, si tenda a riconoscere come bello e piacevole ciò che è armonioso e proporzionato.
Tuttavia, negli ultimi decenni, si è andata affermando una concezione della bellezza del tutto avulsa dalla conoscenza, sensoriale e razionale, del tutto staccata dal piacere estetico e dalla comune esperienza. Si tratta precisamente di un “concetto” di bellezza costruito da alcuni teorici senza alcun nesso con la realtà e con la visione. Sulla base di questo presupposto sono nate, nella contemporaneità, svariate tipologie di arte, accomunate da questa esoterica concezione della bellezza (bellezza come assenza, come disarmonia, come straniamento …). Di fronte a tali “oggetti” non si riesce in alcun modo a vederne la bellezza, però alcuni addetti ai lavori garantiscono che in esse la bellezza c’è.
Accadono allora sconcertanti, ed esilaranti, situazioni, che, mi sembra, possono essere ben descritte dalla favola I vestiti nuovi dell’imperatore scritta da Hans Christian Andersen, ben noto autore danese vissuto tra il 1805 e il 1875. La favola narra di un imperatore molto vanitoso che viene ingannato da due frodatori, i quali inventano di possedere una stoffa così bella che solo gli stupidi non possono vederla. E così i due imbroglioni mostrano all’imperatore una stoffa inesistente, ma egli finge di vederla e finge di ammirarne la bellezza, temendo di essere considerato stupido. Chiede ai due imbroglioni di cucirgli un vestito con quella stoffa, e tutti i dignitari di corte e poi i cittadini fingono di ammirare quel vestito, pensando di non vedere la bellezza in quanto incapaci di fruirla. Solo un bambino ha il coraggio di esclamare che l’imperatore è nudo e solo allora tutta la folla ha il coraggio di credere ai propri occhi e di riconoscere di non vedere niente.
Ebbene, sovente, passeggiando nelle sale di molti musei di arte contemporanea, accade di vedere imperatori vanitosi, cortigiani e cittadini, che fingono di ammirare una bellezza che pare essere riservata solo a menti superiori, finché qualcuno, con l’innocenza dei semplici, non ha il coraggio di dire che non c’è assolutamente niente.

L'ARTE SACRA E LA BELLEZZA


Giona
Nella Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, è scritto che le opere d’arte sacra «per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina, che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio» (n122).
Le opere d’arte religiosa e sacra, dunque, devono “in qualche modo” esprimere la bellezza divina, l’infinita bellezza divina, con la quale intrattengono una relazione naturale, che è cioè propria della loro natura. Tramite l’espressione della bellezza, e in quanto si orientano verso la Bellezza infinita, esse possono esplicitare il loro “unico” fine di indirizzare “religiosamente” le anime a Dio.
Ma che cosa è la bellezza?
La tradizione – ma ancor prima di essa e a suo fondamento anche una autentica riflessione su quanto consta nella esperienza comune – lega la bellezza ad un’esperienza dei sensi che eccedegli stessi sensi. Già nella speculazione platonica, la bellezza è delineata nella sua complessità di realtà ideale visibile per gli occhi. Nel Fedro leggiamo: «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile»[1].
Anche la tradizione scolastica, legge la bellezza come un godimento che parte dalla conoscenza sensoriale ma la supera; così nel pensiero di San Tommaso, la celeberrima affermazione «Pulchrum est quod visum placet», vuole significare che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento: il bello è “gradevole alla conoscenza”[2], perché il bello richiede di essere “conosciuto” da un essere che ha l’anima razionale.
La bellezza si caratterizza per Tommaso come “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, come “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e come “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale. Tutto questo significa un legame stretto tra bellezza ed ordine; già Sant’Agostino affermava che «Non vi è nulla di ordinato che non sia bello: come dice l'Apostolo, ogni ordine proviene da Dio.»[3]
Il piacere causato dalla bellezza coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; e si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, è un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
Il piacere che si gode nella conoscenza del bello trova ragione nel fatto che le cose belle sono anche vere e buone. Infatti, ci piacciono gli originali, non le imitazioni, ci piacciono le cose buone, non quelle cattive.
Anche per i Greci, il tema della bellezza, indagato radicalmente nel suo spessore ontologico, si trova indissolubilmente legato con il bene.
Secondo san Tommaso, il bello e il bene «si identificano nel soggetto, perché si fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come bello»[4]. Il bello implica una forma che desta ammirazione e si riferisce all’intelletto, mentre il bene implica una forma che attrae e si riferisce alla volontà. Potremmo dire che il godimento della bellezza è gioia nella conoscenza del bene: unisce conoscenza e gioia, coinvolgendo tutta la persona.
La bellezza della realtà è un segno della bellezza del Creatore. Le perfezioni di Dio sono da noi conosciute a partire dalla conoscenza della realtà creata. Ogni bellezza è partecipazione della bellezza divina.
Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti ha scritto: «Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!”» (n.16).
Le arti della pittura, della scultura e dell’architettura collocate all’interno del pensiero cristiano, hanno dunque il compito di scrutare e descrivere tale bellezza, traducendola, attraverso i mezzi propri di ciascuna disciplina, in un canto di gioia che, esprimendo l’amore di Dio verso l’uomo, sia capace di essere il canto, fatto con arte, che tutta la Chiesa innalza verso il cielo, come ringraziamento.
L’artista, dunque, non solo deve conoscere la bellezza, ma deve contemplarla, per questo da sempre il primo testimone della verità della bellezza è l’artista; in più l’artista di opere d’arte sacra, per la sua particolare condizione, non può che essere un vero cristiano, che vive la propria vocazione artistica nella costante preghiera.
1) Platone, Fedro, 250 D-E
2) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 27, 1, ad 3um
3) « Nihil enim est ordinatum, quod non sit pulchrum. Et sicut ait apostolus: Omnìs ordo a deo est» Agostino, De vera Religione, cap. XLI (trad. it. a cura di O. Grassi, Milano 1997, pag. 136).
4) Tommaso d’Aquino, Summa theol., I, 5, 4, ad 1um.

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